Altri luoghi

Ci sono altri luoghi nel tuo corpo oltre al tuo corpo – dico –, non so come chiamarli, invento nomi che subito dimentico. Ci sono altre braccia oltre le tue braccia che stringono me quando tu non ci sei. E altre cosce oltre le tue cosce che la sera s’intrecciano alle mie tra le lenzuola arricciate dal caldo d’agosto. Dici che non esisti eppure ci sei, ho scritto centinaia di righe su questo, eppure non mi stanca ripetere a sfinimento che esiste una dimensione oltre il sensibile. Non mi rifugio nel sogno, non amo l’idealità, lo sfiorire subitaneo dell’utopia dei sensi. No, sono il mio corpo ma sono oltre me, anche lo specchio lo dice, non riflette il vero del mio sguardo ma uno sguardo soltanto. Così non ti senti guardata? Su quella sedia, rosso il costume, mi dai le spalle così che io riesca a immaginarti meglio. E se ansimi non sono le scale. E se ansimi non è hatha yoga e nemmeno fitness burnout definition, volti la testa e cerchi me, mi trovi? Non sono in me, dico davvero, basta aprire la porta di casa mia, guardare la disposizione dei libri e dei vestiti. Là puoi trovarmi: confuso, disperso, bisognoso e ricco, avaro e generoso in gesti e sentire. Questa notte lascia uno spazio di fianco a te, che sia letto, divano, pavimento o prato, sarò dove tu sei e con tutti i miei sensi. E sentirai il mio esultare, io il tuo. Ti sveglierai e darai la colpa al sonno e mentirai sapendo di essere l’adorabile, pigra bugiarda che sei.

@dimanchesurlie

Tra le vigne

Tra le vigne è il piede che affonda nella terra grigia. Inciampi, fai forza, il tuo polpaccio teso, nel rialzarti mi guardi. Madonna delle spighe, degli aratri e dei filari, Madonna dei tralci, delle nuvole del Ghirri, inginocchiata nel tuo manto abbronzato, protetta dalle tue paure e dal tuo rimandare, il mio sguardo è una preghiera laica, una bestemmia agli dei del pudore, apri le cosce per mostrarmi il bianco, conducimi all’altissimo nel modo più bello. Non riesco a leggere la fine del libro, una fotografia e un post su Instagram, ti scrivo che sei evanescente e mi metto a correre finché ho fiato nel collo. Ci sei tu nell’estetica pastello, nella tua giovinezza rivelata e nel tuo negarti, tutto è parte di quella sinfonia che il timore compone. Per noi ali di rondini, pelle di serpente, zoccolo di daino, vista da donnola. Per noi presenti lunghissimi, fotografie per troppo tempo appese, paesaggi da mordere. Scrivo così perché la notte non mi sorprenda, per il tuo disprezzo, per l’umiliazione del mondo. E treni affollati, aerei affollati, cuori affannati. Mentre mi snobbi e incolli i miei scritti al frigo come una lista della spesa qualsiasi io in qualche lenzuolo scopro il mio ventre fare su e giù, mimare la vita mentre tutto intorno muore fiorendo.

@dimanchesurlie

25 aprile 2020

C’erano i soprannomi: Saetta, Riccio, Sparviero, Ulisse, Tarzan. C’erano le montagne, c’erano le cascine e i cani per le strade e i bambini che li rincorrevano. C’erano boschi in cui nascondersi e alberi e rami su cui arrampicarsi. C’erano le bugie e c’erano i rastrellamenti. I racconti di Primo Levi, Libera Nos a Malo di Meneghello e le poesie scritte sui muri da giovani sconosciuti morti prima di aver sussurrato l’amore al fiore caldo di una ragazza ancora bambina. Nelle nostre insonnie le vite che hanno preceduto la nostra, quelle che la seguiranno. Tutto il male del mondo da cui liberarci. E non serve guardare oltre la soglia delle nostre labbra ma dentro, giù nelle viscere, nei ricordi d’infanzia, nelle mani dei nostri genitori e nei dolori sofferti in adolescenza. Dici che il passato è un pasto grasso della domenica che abbina alla gioia di un momento i malesseri e la sonnolenza del pomeriggio, la notte a rigirarsi sulle lenzuola. C’erano le corti e c’erano i paesi, i matrimoni e i funerali, le lunghe attese prima di vedere l’amato o l’amata la domenica dopo la Messa o alla fonte, tra le pannocchie dei campi coltivati con sudore. Fare la conta di famiglie numerosissime, pane e vino sempre sul tavolo all’arrivo di un ospite. Il senso dell’accogliere, quello della condivisione. Ci sono mille e più telegiornali social, cronache delle nostre vite, sventolio di generosità e ironie, brindisi senza sapore, pelle senza profumo. L’immaginazione contro cui un tempo puntavo il dito è ora una salvezza. Fulmine, Freccia, Sole e Clarita, siete venuti a salvarmi, ora che questa casa non ha più muri, che le idee valgono nell’orizzontale dell’a tu per tu e sono catene quando arrivano dall’alto. “Si sognava la fine della guerra per guardare le ragazze dai bei vestiti (…), giocare una partita di pallone…” Ora che possiamo dire quello che vogliamo non sappiamo cosa dire. Quando potevamo andare dove volevamo non trovavamo il tempo per andare. Quando ci era concesso di immaginare una vita felice avevamo imparato ad accontentarci di un presente sicuro ma incolore. Sotto l’ombra di quel fiore tutti i nostri grazie da non trasformare in rimpianti. Mi chiedi perché mi sveglio ancora? Per l’attesa, questo mi basta.

A chi tace

Qui, nell’oltremondo, laviamo le mani sotto l’acqua bollente per sentire il calore che le attraversa, provare dolore e poi sorridere. Qui, nell’oltremondo, migliaia di piegamenti sulle braccia: il muscolo teso la sera, indolenzito al mattino. Convivere con l’acido lattico, con gli sguardi curiosi dei vicini. Regole per i giorni nuovi: il piacere del trovare posto a tavola, l’acqua che bolle sul fuoco, le notizie dal fronte degli ospedali, lenzuola in lavatrice. In questo luogo appartato, rintracciabile dalle applicazioni dei cellulari, gli uccelli volano radi, spaventati dall’assenza degli umani ricercano la resina dell’albero, il rumore sempre uguale dei ruscelli. C’è un uomo che si affaccia alla finestra e compie azioni ripetitive: fuma, sorseggia caffè da una tazza bianca, si copre gli occhi con una mano tesa per cercare il sole, toglie la mano quando spunta la luna. È un uomo le cui labbra, coppia fulva di cavalli arabi, rimangono chiuse. E nulla può la tempesta dei social, nulla l’esibizione altrui del sé, trovare un motivo all’esistere nel solo fatto di respirare. Qualcosa più di altro è degno di essere svelato? Si domanda. Scuote la testa, non c’è risposta. Fuori da noi, oltre noi, lo spazio dell’attenzione degli altri si fa molle e appiccicoso nell’intrattenimento, la depressione è un corvo nero sulle spalle, esiste una leggerezza che non è nella mancanza di senso. Il contest ginnico e quello culinario, tutte le tue preferenze, le tue stranezze, quanto ti importa delle parole degli altri nelle videochat che sono diventate impegni? Bisogna pur trovare un modo per ingannare il tempo. Nell’oltremondo, dove non ci si può sfiorare, le dita si allungano, l’immaginazione torna a farsi indispensabile. L’esistere non è più soltanto quel che si realizza, ma quel che si desidera, quel che si plasma nello spazio intangibile di un’irrealtà che irreale non è. Il nostro non vederci sublima l’emozione e confonde il sentimento. Posso credere ai tuoi occhi orientali? Alle tue labbra, orlo di un’anfora antica colma di vino e allegria? Qui, nell’oltremondo, anticamera del salone delle feste, ci si prepara al mondo. E se non sarà il tempo delle parigine e dei maglioni a collo alto, onoreremo l’estate con spalle nude e gambe che si intrecciano. Io, tu, nel migliore dei tempi possibili, l’unico che ci è dato vivere.

#RIMINI

@marcodimanche

Il pappagallo

Si svegliano, si salutano, aprono la finestra, spalancano le persiane. Sul balcone di fronte un anziano in pantaloncini corti parla con un pappagallo, gli chiede di volare sopra al cimitero e salutargli la moglie e gli raccomanda di non svegliarla, che questi non sono tempi belli. Si alzano, si siedono al tavolo della cucina, scaldano il latte, aspettano che il caffè sporga dalla moka. In televisione le opinioni di tutti e completi firmati, camicie stirate. Scrivono ai genitori, scrivono ai figli, ora che gli interessa davvero sapere come stanno le persone che amano. E sistemano il letto, aspirano la polvere, lavano i pavimenti, caricano la lavatrice. “Aspettiamo i compiti dalla maestra”, dice la mamma alla bimba canta una canzone di Tommaso Paradiso. E decidono cosa mangeranno a pranzo, e si abbracciano come non facevano da tempo. “Leggimi una storia”, sempre la stessa storia. Lei si spalma creme sul viso, riordina quello che ha già sistemato più volte. Lui si siede al tavolo della cucina, accende il Mac, legge le email di lavoro. Non riesce a concentrarsi, si alza, apre il frigorifero, beve un bicchiere d’acqua. Prende un quaderno, scrive una strofa, suona la chitarra. Si siedono a tavola, non parlano di niente. Chiamano gli amici, li guardano attraverso un cellulare. Hanno voglia di fare l’amore, lo fanno. Sono finiti i preservativi, non importa. Hannibal, Charthaginensium imperator, post longum et difficile ab Hispania per Galliam iter… Traducono dal latino, studiano la storia degli uomini. Imparano a leggere. Consumano i tablet. E fanno domande sull’esistenza di Peppa Pig. Vola un pappagallo sulle case degli uomini, vola e saluta chi dorme, qualcuno dice il suo nome perché lui lo ripeta, lui lo ripete. Un pappagallo colorato che volteggia tra i palazzi e spinge a muovere la mano in segno di saluto, la cui memoria è fatta di nomi e di messaggi da portare. Si baciano i polsi, si lavano i capelli sotto la doccia, si stringono in asciugamani che profumano di ammorbidente. Si guardano come la prima volta. Tornano a essere sconosciuti, curiosi di sapere chi sono davvero, e ogni parola si fa leggera, non come un tempo, quando gli animali stavano nelle gabbie e ripetevano soltanto il nome dei padroni.

 

 

Nelle Azzorre

Nei dintorni di São Miguel, nelle Azzorre, là dove non si tirano cavi e dove si perde il segnale dei satelliti. Niente rete internet, nessuna comunicazione telefonica, soltanto vulcani e radure, sorgenti d’acqua, sentieri e laghi che dall’alto stanno in un abbraccio. Lontano da tutti per cambiare l’inerzia delle azioni quotidiane, umani riuniti in case basse a ridosso di un mare che confonde l’occhio. Il bianco, il blu, il verde nelle gradazioni che regala la natura. La barba di una settimana, le mani che si fanno forti e i muscoli delle gambe sempre più tonici, che è tutto un su e giù di strade improvvisate. Pozzanghere naturali in cui gettarsi nudi, sassi grandi su cui sdraiarsi perché il sole asciughi la pelle. Lontano dal mondo ritrovare il contatto col proprio corpo, sentire il suono del cuore quando dal bosco viene un rumore sconosciuto e la paura si insinua tra i sensi. Il respiro dopo una salita, il calore sulla pelle e il freddo di notti passate all’addiaccio. Si può rinunciare all’amore, si chiede, nella solitudine in cui ho voluto cacciarmi? Fa no con la testa, parla a un vento leggero che prende le parole e le fa girare in tondo. Il pensiero di lei, il desiderio carnale che al mattino lo sorprende. Afferrare la terra, abbracciare gli alberi, strofinare il ventre sul prato e muovere il bacino sfidando la resistenza dell’acqua. Poi meditare dopo una scalata, chiudere gli occhi per non farsi distrarre dalla meraviglia dell’orizzonte. Può dirsi felice o anche quella è una cattività? Estrema libertà di fare e di pensare, poter stringere il tutto o azzerarsi nel nulla. Le parole di Giovanni Lindo Ferretti: trova le regole che possano far uscire da te soltanto quello che è necessario. Imparare dalle emergenze. Le contraddizioni del pensare alla propria produttività, quanti passi oggi? Quanti vulcani? Quante sorgenti? Ovunque il rischio di contare, di giudicarsi per il proprio fare. Quanto sono stato capace di stare? Quante volte ho avvertito il desiderio di amare? Lontano da tutto si sente parte del tutto. E così il pensiero del suo profumo di mandorle e incenso, delle sue spalle nude, delle sue anche spigolose, tutto è paesaggio e desiderio di un ritorno all’uomo che è sempre stato.

Nel disegno

In quel disegno che ancora non mi hai mostrato ci sei tu a piedi nudi che prendi la rincorsa su un ring, coi guantoni da boxe e gli short sopra l’ombelico. Dove corri? Il tuo sguardo in un casco imbottito di pelle gialla, la gamba piegata per spiccare il volo. Dici la libertà non è di ora, alle finestre sono appesi i messaggi per la vita che verrà. Immobilizzati come siamo pensiamo al condizionale: come sarebbe se. Cantanti dietro alle tastiere, cittadini davanti al televisore, case sempre più pulite, capelli sempre più sporchi e le poesie di Bolano e di Mariangela Gualtieri. Mi piace leggere le parole dei vivi, immaginarle tra decine di anni e dire che quando sembra mancare tutto nelle parole c’è una consolazione sorprendente. Ti ho scritto per istinto, per curiosità, per noia, ho proiettato in te futuri improbabili e viaggi utopici e falliti in partenza. Hai detto che hai voglia di vedermi, che se allunghi le dita non riesci a toccarmi. Per chi inganna il reale con l’immaginario e lo traduce in parola questa solitudine è più leggera. Mentre c’è un’ansia che ci divora e ci costringe sul divano. Cuscini sotto alle nostre teste, immaginarci orizzontali a guardare un cielo che non c’è. Tradurre i giorni in progetti, riempire quaderni con citazioni di altri e liste di cose da fare che poi non hai voglia di fare. Cerchiamo di tradurre in ordine questo disordine a cui non siamo abituati. E quando tutto è sulla scrivania, fogli e fogli, righe e righe, la tazza del caffè, arrivi tu e spalanchi una finestra dal tuo piccolo mondo verde e fatato, vento che scompiglia i capelli, vento che tutto disordina e A4 sul pavimento. Ricominciare da capo, una nuova sfida di guance e sangue che scorre, di curiosità tradotte in domande. Abbiamo tolto la maschera dici e ora sì che il nostro respiro assomiglia a una canzone di quelle che sorprendono sdraiati su una amaca, quel che resta del giorno nel deserto di Atacama.

I viaggi dentro noi stessi che non avevamo previsto

Come messaggi in bottiglia da un’isola deserta, parole sott’acqua per reti da pesca che ormai nessuno getta da giorni. L’uragano, la burrasca, onde alte sulle finestre delle case la notte. I risvegli silenziosi e gli uccelli nel blu a dirci che la vita non è ancora finita. Prima di chiudere gli occhi hai detto siamo su una mongolfiera e sotto di noi tutto si confonde, diamo la colpa di ciò che non conosciamo alle nuvole. Una scrivania contro il muro al posto del tavolo dove invitavi gli amici. Questa cosa del non toccarci ci appesantisce, lo dici mentre metti in ordine i cassetti, libri in ordine per colore, ti chiedo se non l’hai già fatto ieri, dici che ognuno ha i suoi rituali. Ora che gli animali che ci saltano in braccio e ricevono le carezze che pensiamo per gli altri, non rimpiangi di non averne uno? A farmi compagnia mura bianche e le lampade, i rumori di fondo e le parole delle poesie che sono quelle che contro ogni aspettativa assomigliano più ai dialoghi del mondo dei vivi. La luce come un’amica, sarà per questo che abbiamo paura del buio e cerchiamo case con le finestre grandi. Pensieri di notte: corsie degli ospedali, amici e amiche con le loro vite storte e bellissime, i discorsi degli innamorati a distanza e le pulsioni erotiche, la chimica che ci stravolge le parole e le posizioni da tenere sul letto. Ora che ogni come stai riprende senso, i quarant’anni di Simone e le feste da remoto. Andrea con la cuffia sulle orecchie e i lavori da portare a termine. Lo trovi ancora un senso all’affannarsi? Pennarelli scarichi e scarabocchi sugli scontrini. La nebbia che fa il vaporizzatore e l’odore buono dei panni appena stesi. Il tuo risveglio che mi ricorda perché mi sveglio anch’io. L’aereo che parte per la Sardegna e il mio posto vuoto. I viaggi dentro noi stessi che non avevamo previsto.

La musica nei bar

La musica nei bar distrae i pensieri ma non lo sguardo. Addormentati, le dita strette alla tazzina del caffè, una notizia dopo l’altra, la retorica di Gramellini ancora in prima pagina. Dici non parliamo di niente, dici parliamo di tutto. Al paese suonano le campane per salutare il giorno, la Messa tace e vecchie dita scorrono i rosari in case coi soffitti alti. Le comunità delle montagne si ritrovano intorno a grandi tavoli in legno, colazioni in silenzio e braci del camino ancora calde. Ci scaldavamo la gola con il Syrah di Stefano Amerighi e ci sentivamo ricchi. Le scuole sono chiuse come a Natale ma non c’è aria di neve e nemmeno di festa. Spaesati in quello che sono sempre state le nostre vie, l’imbarazzo degli abbracci mancati e il timore dell’altro. Facevamo l’amore guardandoci da lontano o parlandoci al telefono. Di notte mi hai scritto che questa che viviamo è una dimensione che a volte pensi stupida e altre volte no. Che dovremmo vederci e questi chilometri che ci separano scomparire. Sul treno con le salviette igienizzanti, le mani consumate, la tua pelle morbida diventa scivolo per i miei pensieri. Un pacchetto di Camel Blu ancora nel cellophane, le aprirai tu se ne avrai voglia. Ho smesso di fumare anni fa ti ho detto, sono certo di non ricominciare. Andiamo a Venezia, chiudiamoci nei cinema quando piove. Quando dopo aver fatto l’amore facevo discorsi surreali e tu dormivi, chissà chi li ha ascoltati, chissà se qualcuno li ricorda. Ora ti svegli in un letto che non è il tuo, sul fuoco il caffè per gli amici, scegli la tazza che ti piace di più e la metti un po’ in disparte, un po’ come fai con me. Dove stai tu non ci sono montagne, qui invece dal ponte della tangenziale, tra i grattacieli dell’Expo, si vede anche il Rosa. Dovresti dirmi la lunghezza del tuo piede, dovrei affittare gli scarponi e gli sci e un albergo tutto nostro, come in Borgogna, con la piscina chiusa e il personale ridotto, cuscini nascosti negli armadi e mille o più coperte per sentire un peso che non è quello del vivere.

Impegnati come siamo

Impegnati come siamo ad apparire per quello che siamo, magari meglio di quello che siamo. Oltre la frontiera costruiscono muri e lanciamo aerei di carta con messaggi rassicuranti. Facciamo ancora la miglior pizza al mondo. Le tue labbra congelate sulla seggiovia e le cosce di mare, arriverai a togliere il reggiseno sotto le maglie a rete in quel paese troppo piccolo che ti disegna i contorni a pennellate di giudizi. Fuori dai palasport i parcheggi vuoti, dormiamo in case troppo grandi hai detto, dovremmo stringerci prima che sia troppo tardi, utilizzare soltanto lo spazio necessario per una sosta e il resto attraversarlo. Joanna canta in francese di una solitudine da stringere tra le braccia, tra le mie gambe un cuscino prima di dormire, poi un altro, uno ancora, quante carezze dalle lenzuola in una notte sola. Non me ne intendo di nulla, ti dico, e ora che ho smesso di bere, con le forze raddoppiate e una lucidità rara non mi addormento al telefono e non ti annoio con i miei sei bella. Quando sei ubriaca saltelli su una gamba sola come gli aironi. Ti dico che è inutile lamentarci, che frasi come è il periodo più buio di sempre non servono a un cazzo. E ridi quando discuto con gli sportelli automatici, con i distributori di sigarette e dei biglietti della metropolitana. Pensi che dovremmo andarcene da qualche parte e poi ci ripensi, nel senso che non ti va più. Ricordo la mia adolescenza e i complimenti rimasti tra i denti, quegli sfottò alla compagna di banco, al suo culetto a forma di pesca e ai tvb scritti sul diario. Quando a otto anni ho regalato un portachiavi a forma di cuore a Francesca, che merda. Ora che chiudono anche gli aeroporti, ora che non abbiamo nemmeno il tempo per scopare, mi chiedi perché continuo a sentirmi irrealizzato se forse non sarebbe ora di fare un figlio. E apri le gambe dici che tutto sta lì e io non capisco. Guardo nel buio e mi fido di quando dicevi che in tutto ciò che possiamo ancora immaginare vive la speranza.